Al
mio amico Gianmaria guardando la sua pittura
Io credo
che la pittura, proprio l’atto del dipingere e tutti i suoi materiali,
le tele i pennelli i colori i solventi gli odori, le ore passate in solitudine
dentro se stessi, magari con la musica anche, è una specie di droga
fantastica. E una volta che l’hai provata e ti è entrata
nel sangue non puoi farne più a meno. Soppianta un po’ tutti
gli altri enzimi, comanda la ghiandola pineale, e come con l’eroina,
il solo antidoto alla pittura è la pittura stessa.
Credo che
si diventa artisti per darsi delle regole, per trovare un modo di stare
al mondo secondo regole che ci diamo noi, che stanno bene a noi. Contro
le regole del mondo. Un artista, come uno scrittore, se è davvero
tale (se fa sul serio, se non è solo uno che passa il suo tempo
a buttare giù colori su una tela o a riempire i fogli con le sue
cazzate) compie una specie di cammino di autoeducazione, di autodisciplina,
e si costruisce la sua vita e il suo lavoro in libertà, mettendosi
al mondo da sé, contro il discorso dominante, contro le regole
che hanno cercato di imporgli.
Ti voglio
trascrivere una delle molte cose interessanti che ha detto Dubuffet: “I
bambini, come i pazzi, sono fuori dal sociale, fuori dalla legge, asociali,
alienati: proprio quello che l’artista deve essere. Ecco da dove
viene il sapore dei loro disegni, la libertà d’invenzione
che in loro troviamo, la facilità e la disinvoltura delle loro
trascrizioni, il loro ardimento e soprattutto (ed è questa la chiave
di volta della pittura) la forte capacità di “vedere”
sul serio ciò che è dipinto, senza che lo spirito critico
intervenga subito, come succede nell’adulto, nel “professionista”,
a impedirlo.”
Io non sopporto i professionisti dell’arte, se un artista non sa
mantenersi un po’ nell’incertezza, e in quello che i maestri
buddisti chiamano “lo spirito del principiante” per me perde
qualunque interesse. Rossana
Campo
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